News | News | 30/01/2024

Abbiamo un problema con i social media

I social media non ci piacciono più (e non è detto che tornino a piacerci).

Non si può certo dire che i social media vivano un periodo d’oro, sulla scia di notizie che ne mettono sempre più in discussione l’utilità. Ultima, in ordine cronologico, quella relativa alla posizione ufficiale della città di New York che, su iniziativa del sindaco Eric Adams, ha pubblicato un documento consultivo del Commissario per la Salute, che identifica l’accesso e l’uso incontrollato delle piattaforme come dannoso. È la prima volta che una grande città degli Stati Uniti compie un passo del genere.

La Grande Mela ha bollato le piattaforme come dannose per la “salute mentale”: “Non possiamo stare a guardare e consentire a Big Tech di monetizzare sulla privacy dei nostri figli e mettere a rischio la loro salute mentale”, ha tuonato Adams. “Così come è stato fatto con il tabacco e le pistole, tratteremo i social come un altro pericolo per la salute pubblica e ci assicureremo che le società tecnologiche si assumano la responsabilità dei loro prodotti“, ha aggiunto, impegnandosi a “correggere” una crisi che colpisce soprattutto bambini e teenager.

Non si arresta, dunque, la fase discendente di popolarità dei social media, che ha travolto anche figure-chiave, come quelle degli influencer. Ma cosa è cambiato e perché i social non ci piacciono quanto ci piacevano prima?

Quando Facebook è nato, era uno strumento per restare in contatto. Poi c’è stato Twitter, che si è focalizzato sulle opinioni. Dopo ancora, Instagram, con le foto. Le connessioni tra persone erano il fulcro di queste esperienze: parlare, scambiare, condividere, proporre, informarsi. Oggi, invece, i feed sono pieni di annunci e post sponsorizzati, quindi bisogna materialmente andare alla ricerca di contenuti interessanti e coinvolgenti in senso puro, al di là della loro natura commerciale.

È sempre più difficile ritrovarsi davanti a un post che effettivamente racconti qualcosa, coinvolga e non stia lì, invece, per suggerirci di comprare o apprezzare un prodotto/servizio. L’hashtag #adv, di cui all’inizio non si sentiva neppure l’esigenza, oggi esprime il “valore” di un progetto (in barba al contenuto in sé). Gli utenti sono “travolti” da pubblicazioni di brand, influencer e chiunque paghi per un essere visibile. Non manca la voglia di conoscere: il problema sta nella mancanza di un corrispettivo in termini di offerta.

Tutto questo impone una riflessione, anzitutto sul tipo di strategia comunicativa da adottare. Come deve comportarsi chi vuole informare? Come ci si distingue in un feed in cui sembra esserci spazio solo per la pubblicità o per contenuti auto-prodotti da influencer e compagnia bella?

La soluzione? Ripartire da comunità ristrette

La risposta a queste domande potrebbe trovarsi nel ritorno a comunità ristrette. Un concetto questo, che non è affatto nuovo. Il passaggio a reti più piccole e più mirate era stato previsto anni fa da alcuni grandi nomi dei social media, tra cui Mark Zuckerberg e Jack Dorsey. Zuckerberg, nel 2019, ha scritto in un post su Facebook che la messaggistica privata e i piccoli gruppi erano le aree di comunicazione online in più rapida crescita. Dorsey, dimessosi dalla carica di amministratore delegato di Twitter nel 2021, ha spinto per i cosiddetti social network “decentralizzati“, che danno alle persone il controllo sui contenuti che vedono e sulle comunità con cui interagiscono.

Tecnologi e accademici si sono concentrati con sempre maggiore interesse sui social network più piccoli. In un articolo del 2023, Ethan Zuckerman, professore di politiche pubbliche all’Università del Massachusetts Amherst, e altri accademici hanno delineato come le future aziende potrebbero gestire piccole reti a basso costo. Hanno anche suggerito la creazione app che consentano di passare da un social all’altro, includendo reti più piccole.

I vantaggi delle piccole comunità sono molteplici: anzitutto sono specifiche e consentono di concentrarsi su determinati interessi; in secondo luogo, diminuiscono la pressione sociale derivante dall’uso dei social media. Riflettendoci su, si realizza che le identità online degli utenti sono già frammentate tra comunità diverse: a seconda del social che frequento, opto per una determinata “versione” di me.

Lo scorso anno l’Università di Harvard ha avviato un programma di ricerca dedicato al rilancio dei social media: una delle app emerse dal programma, che si chiama Minus, consente agli utenti di pubblicare solo 100 post per tutta la vita. Ed ecco, dunque, che il caro, vecchio, “less is more” è una soluzione più che valida.

Difficile dire dove ci porterà il futuro dei social media, difficile dire se ci sarà un futuro per i social media così come li conosciamo. Ma è facile, invece, comprendere la sempre maggiore richiesta di qualità, verifica delle fonti, spunti di riflessione autentici. Concetti, questi, con cui l’editoria classica ha sempre avuto a che fare (a volte anche storcendo il naso), che non sono affatto scontati nel mondo delle reti social. Tutto questo ci offre una chiave di lettura per comprendere come gestire più efficacemente i social media.

Il tempo è un bene prezioso e non lo si può impiegare scrollando all’infinito un feed di contenuti sponsorizzati. Non serve coinvolgere “a tutti i costi“: meglio, piuttosto, fare menoma farlo meglio.


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